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Di chi è l’oro e chi ne ha in mano il prezzo. Storie di ordinario feudalesimo finanziario

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Viviamo in un mondo decisamente strano. L'oro ha raggiunto un nuovo record, arrivando a 2.145 dollari l'oncia. La stranezza di questa impennata è rappresentata dal fatto che si abbina ai record degli indici di Borsa. In genere l'oro, essendo considerato un bene rifugio, cresce molto quando è in corso una crisi finanziaria e le risorse fuggono dalle Borsa. La situazione attuale è invece del tutto diversa: l'oro sale mentre le Borse toccano continui massimi. Come mai? La spiegazione più probabile ha a che fare con la speculazione.

Alcuni grandi fondi stanno infatti comprando titoli che scommettono sull'oro, sapendo che i venti di guerra hanno indotto alcune banche centrali a comprare oro e dunque a spingerne verso l'alto il prezzo; una spinta a cui contribuisce la volontà della Banca centrale russa e di quella cinese di ridurre le proprie riserve in dollari, sostituendole appunto con l'oro. Dunque, i fondi scommettono per amplificare al massimo, in termini di prezzo, un fenomeno che sarebbe in realtà decisamente più contenuto. È naturale che, per le stesse ragioni, l'aumento del costo dell'oro faccia correre quello delle azioni delle società che lo possiedono. Ma di chi sono queste società?

Le prime due, per capacità "produttiva", Barrick gold e Newmont mining, vedono la presenza dominante di Vanguard, BlackRock e State street, che convivono con il colosso dell'oro Van Eck associates e possiedono, insieme, circa il 20% dell'azionariato. Gli stessi fondi compaiono anche in Kinross Gold. In pratica un terzo della produzione mondiale di oro è controllata dai “big three” insieme a Van Eck. È facile capire allora chi tragga vantaggio dai nuovi record dell'oro; gli stessi che beneficiano di quelli della Borsa. Così risulta più chiaro perché oro e Borse corrono insieme. Corre anche, in maniera decisamente anomala, il settore dei beni di lusso che è dominato da tre società: Louis Vuitton (Lvmh), Hermes e Dior, dotate di una capitalizzazione complessiva di oltre 800 miliardi di euro. Si tratta di società quotate che sono nelle mani pressoché esclusive di due sole famiglie, gli Arnault e gli Hermes.

Siamo di fronte, dunque, a una concentrazione di ricchezza finanziaria formidabile, che non passa attraverso i fondi, ma conserva una struttura familiare per certi versi quasi ottocentesca. Naturalmente il valore dei titoli di questo monopolio mondiale del lusso, nelle mani di un pugno di super ricchi, è in continua ascesa perché il 5% della popolazione mondiale, quello dei più ricchi, manifesta la prerogativa di "consumare" il lusso, senza risentire di guerre, epidemie e altre condizioni che affliggono i comuni mortali. E chi scommette in termini finanziari ha ben chiaro questo scenario, accelerando ulteriormente l'impennata dei valori azionari. Il feudalesimo finanziario è un formidabile motore per il potere dei super ricchi che, “stranamente”, non risentono dei conflitti, destinati invece a generare altre stranezze.

Esiste l’ipotesi, sostenuta dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, di procedere alla definitiva confisca delle risorse della Banca centrale russa, attualmente congelate, per utilizzarle come garanzie per emettere titoli, magari in dollari, per finanziare la guerra in Ucraina. In merito a ciò, forse, è utile una considerazione più specifica. Dei circa 260 miliardi di dollari bloccati, ben 191 sono depositati presso una holding che ha sede in Belgio, ma che ha un azionariato in larga misura fatto da grandi società finanziarie francesi e, più in generale, europee. Si tratta di Euroclear, un deposito di titoli e valute a cui la Banca centrale russa aveva destinato molte delle proprie risorse che venivano conservate in euro. Ora, se tali risorse venissero definitivamente confiscate e usate per emettere debito in dollari, sarebbe evidente il danno per la credibilità dell'euro e della finanza europea che, risulterebbero ancora più inaffidabili e si determinerebbe l'ulteriore dimostrazione della assoluta centralità del dollaro. La guerra sul campo e la guerra finanziaria sono due facce della stessa medaglia.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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